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DISTANCE

DANCERS IN QUARANTINE

DISTANCE – Dancers in Quarantine’ è un progetto sulla distanza che nasce durante la quarantena con l’idea di esplorare e rendere visibili i legami invisibili che ci uniscono per poterli raccontare e rendere soggetto performativo.

La quarantena ha trasformato la distanza nel nostro comune denominatore, da qui l’esigenza di sperimentare quanto e cosa passa della nostra capacità di comunicazione attraverso il silenzio e l’assenza fisica tramite la creazione di composizioni sincroniche ‘al buio’, dove mi metto in relazione con l’altro solo ‘idealmente’, senza ausilio di video o base musicale: la distanza come matrice della danza.

Vogliamo dare un senso diverso alla distanza, ribaltare il vuoto in pieno, raccontare la poesia dell’ascolto e la delicatezza dei legami che ci uniscono e lodare la fantasia e il potere dell’immaginazione come risorsa e salvezza per affrontare questo periodo.

In questa prima fase, nata durante il lockdown, è stato utilizzato il tempo come tessuto connettivo. Danzatori e musicisti si sono accordati su un orario e durata e hanno composto in sincrono, ognuno nel proprio luogo, senza altra connessione se non l’immaginazione, ma con l’intento di creare un dialogo. Le improvvisazioni sono state riprese e accostate in seguito, creando delle istantanee del momento presente che evidenziassero le eventuali connessioni accadute tra i performers svelando analogie, unisoni nascosti, relazioni spaziali e dimensionali che emergono osservando il quadro finale.

Sono nati dei quadri in movimento di breve durata che sono la somma di più tensioni condivise e che in qualche modo contengono dei ‘momenti rivelatori’ che evidenziano questi legami sottili che andiamo cercando, come soffiare del fumo sopra un raggio infrarossi.

‘DistANCE – Dancers in Quarantine’ è un progetto sulla distanza e sulla relazione, che nasce con l’idea di rendere visibili i legami che ci uniscono e spostare l’attenzione sul ‘tra di noi’, sulla relazione che ci lega, piuttosto che sulla singola individualità.

Questo è un tempo che pochi avrebbero pensato di sperimentare e che ha trasformato la nostra visione della realtà. E’ abbastanza evidente come questa condizione ci abbia, forse brevemente ma per la prima volta, uniti come esseri umani, come razza. Ed è interessante che quello che ci accomuna, e quindi ci avvicina, è il dovere stare a distanza. Un ossimoro e un punto di partenza: la distanza ci unisce, è un filo che ci lega attraverso lo spazio che non possiamo solcare. Ma può diventare visibile questo legame? Può diventare esso stesso un soggetto? Lo posso raccontare, immaginare, toccare con mano? Lo posso utilizzare per danzare? E può essere utile la consapevolezza di tessere continuamente danze invisibili con il mondo nella nostra vita quotidiana?

Provando a tirare quel filo è nato questo progetto.

Due danzatori improvvisano nello stesso momento in luoghi diversi, senza alcun contatto visivo o informazione su cosa l’altro stia facendo. In pratica si accordano in precedenza su un orario e una durata e poi danzano da soli ma sapendo che l’altro ‘esiste’ e sta cercando un dialogo, una connessione. I primi 30 secondi sono lasciati al silenzio e al respiro, per facilitare la concentrazione. Le improvvisazioni sono riprese con il cellulare – per uniformità e comodità – e in seguito accostate, creando delle istantanee del momento presente che evidenziassero le eventuali connessioni accadute tra i performers svelando analogie, unisoni nascosti, relazioni spaziali e dimensionali che emergono osservando il quadro finale.

Il tipo di dialogo che si attiva attraverso questa modalità utilizza strumenti e antenne che normalmente vengono messi a tacere o attutiti dalla moltitudine degli stimoli a cui siamo esposti, e anche dalla vicinanza fisica che in alcuni casi ostacola quella emotiva. In questo caso ci possiamo affidare solo all’ascolto e all’immaginazione.

Il silenzio creato dalla quarantena si è dimostrato un terreno fertile per amplificare il desiderio di contatto e così sono nati i primi esperimenti di composizioni al buio. Sono stati coinvolti anche compositori, che improvvisassero nelle stesse modalità, creando quindi dei quadri in movimento di breve durata che fossero la somma di più tensioni condivise.

L’intento di queste composizioni istantanee non è finalizzato alla produzione coreografica o alla narrazione di un soggetto ma quello di rendere visibili i fili invisibili che ci legano e che creano un tessuto connettivo dal quale è possibile trarre costantemente sostegno e ispirazione.

In questo caso la distanza è la matrice del progetto, la condizione di partenza per il lavoro, per cui l’orecchio che si tende alla ricerca della presenza dell’altro non si può più affidare alla presenza effettiva e neppure virtuale, a cogliere attraverso i sensi, suoni, immagini, o calore del corpo. Tutte le percezioni e gli stimoli devono attraversare una distanza ben più ampia e essere recepiti e filtrati da quella che potremmo ‘banalmente’ chiamare immaginazione. La tensione creata dal non sapere cosa l’altro stia facendo predispone la sincerità e l’essenzialità.

“Sono sola nel mio luogo a danzare ma so che in un’altra città, nello stesso momento, X sta danzando con me e con lei io interagisco, non con altri. Questa consapevolezza guida il mio movimento.”

Danzatori e musicisti si accordano su un orario e una durata e compongono istantaneamente, in sincrono e a distanza, – ognuno nel luogo in cui si trova – senza altra connessione se non l’immaginazione e capacità di affidarsi all’ascolto, ma con la consapevolezza e l’intento di creare una composizione. Le improvvisazioni sono filmate e in seguito accostate – o sovrapposte nel caso di composizioni musicali – perché un occhio esterno possa leggere ciò che è accaduto.

L’occhio esterno che si trova a leggere il risultato di queste sincronicità si predispone automaticamente in una condizione di curiosità e apertura.

Esistono vari studi sul fatto che la nostra mente – in determinate condizioni – tenda a ‘immaginare’ connessioni inesistenti tra materiali visivi e sonori che le sono proposti. In pratica a creare un legame che, di fatto, non esista compensandolo attraverso una certa attitudine mentale. E’ probabile che anche in questo caso qualche meccanismo del genere sia attivato. Nello stesso tempo però si può dire che proprio l’attivazione di una tale predisposizione mentale sia di per sé uno spostamento rispetto al nostro normale modo di percepire i fenomeni, e quindi un’apertura, uno stimolo all’utilizzo dell’immaginazione.

 

IL MOVIMENTO

Dal punto di vista della composizione invece è interessante come il task proposto al danzatore agisca sulla sua qualità di movimento e sull’attitudine performativa, stimolando una sincerità espressiva vibrante e in ascolto.

In quest’ottica di ricerca sul movimento questo tipo di approccio affonda le radici ( o quantomeno trova riscontri e similitudini, dato che l’accostamento è nato a posteriori ) con tutta la filosofia e la pratica dell’Authentic Movement di M.S. Witehouse e Janet Adler, tant’è vero che abbiamo riscontrato – nelle sperimentazioni fino qui condotte – come le connessioni risultino più visibili ed il movimento venga facilitato dalla pratica di tenere gli occhi chiusi durante il lavoro. Il danzatore afferma di ‘sentire’ l’altro – e se stesso – più facilmente e di essere facilitato nel percorso.

IL TESTIMONE o SPETTATORE

Proprio riflettendo sull’accostamento con le modalità dell’Authentic Movement è emerso il ruolo chiave del testimone che nel processo proposto da Witehouse e Adler è parte fondamentale dell’atto. Ed è qui che ci siamo immaginati di poter ‘aprire’ su una piattaforma più ampia questo lavoro che inizialmente esauriva il suo intento nella relazione tra performers. E’ interessante l’accostamento del ruolo di testimone a quello di spettatore e apre una riflessione sulla relazione tra audience e performance/performer che è doveroso revisionare costantemente.

Questa è la funzione del testimone secondo l’Authentic Movement.

This intentional presence of the witness allows the mover to explore his or her unconscious impulses more deeply. This process eventually enables the mover to develop an inner witness, thus increasing conscious awareness. The outer witness simultaneously develops the ability to internally witness his or her own sensations, thoughts, and feelings in response to external witnessing. The simultaneous development of the inner witness connects mover and witness; both are increasing their awareness of self through the participation in this intentional relationship.

After moving, both mover and witness may speak.  The witness speaks, in service of the mover, to observed physical movement and to internal responses and sensations in relationship to watching the mover. 

In pratica il testimone e il danzatore sono strettamente coinvolti in un processo di delicata introspezione che permette ad entrambi di sperimentare una diversa attenzione che si sviluppa contemporaneamente verso l’interno e verso l’esterno.

A questo punto è nata l’idea di sviluppare un’applicazione per device mobili che funga da tessuto connettivo per facilitare queste danze uniche coinvolgendo un eventuale pubblico/testimone, includendolo nel momento in cui la composizione avviene e rendendolo l’unico ( o gli unici ) ad avere la visione del quadro creato e chiudendo così il cerchio performers-musicista-audience.

Con questa modalità si potrebbero creare infinite e irripetibili micro-danze, che coinvolgano uno o più spettatori/testimoni attivamente e che possano anche la funzione di riportare la danza a una dimensione più quotidiana, aiutare a colmare la distanza culturale che spesso si riscontra tra performance contemporanee e pubblico e soprattutto attivare un processo di coinvolgimento, sensibilizzazione ed educazione che coinvolga entrambe le parti in gioco, in pratica attivare un dialogo tra audience e performer.